Io dico x e tu capisci y: i fraintendimenti sono all’ordine del giorno; ecco il motivo principale
Noi tutti, ingenuamente, pensiamo che le frasi che diciamo contengano messaggi espliciti che, come fossero un regalo, possano essere confezionati da chi parla (o scrive) e ricevuti tal quali dall’ascoltatore: le parole, dunque, sarebbero solo i contenitori in cui i parlanti inseriscono i loro contenuti mentali (pensieri, significati, sentimenti) che vengono “estratti” dagli ascoltatori (secondo la “metafora del canale” di Michael Reddy).
Però così non è: la lingua è un sistema costruito per essere ambiguo, e l’ambiguità è un suo pregio, perché consente al parlante di piegare le parole ai contesti e modulare i messaggi a seconda delle proprie intenzioni comunicative.
Qualsiasi atto linguistico, fondamentalmente, acquista la sua significazione nel contesto, e al di fuori del contesto non è più interpretabile: una frase come la neve è rossa costituirebbe un’affermazione falsa e insensata se ci attenessimo ai suoi contenuti logici, ma può divenire pregna di senso e sangue se detta da un soldato in trincea al fronte.
Nei giorni scorsi Rai1 ha trasmesso in 6 episodi una serie televisiva dedicata al Commissario Ricciardi, splendido personaggio letterario creato da Maurizio de Giovanni. Questo commissario è caratterizzato da un dono/una maledizione: vede i morti di morte violenta, e li sente ripetere in un loop ossessivo l’ultima frase da loro pronunciata in punto di morte. Proprio certe vicende di Ricciardi mostrano alcuni modi in cui la lingua può essere ambigua e, fuori di contesto, potenzialmente ingannevole.
Nel romanzo Il posto di ognuno (Fandango, 2009) la deceduta duchessa di Camparino, cui nelle ore precedenti sono stati sottratti ben due diversi anelli (di cui uno da viva, in pubblico, dal suo amante) ripete ossessivamente “l’anello, l’anello, hai tolto l’anello, l’anello mi manca”; peccato però che l’ovvia inferenza che ne scaturisce possa solo depistare le indagini. In questo caso l’ambiguità del messaggio è dovuta alla polisemia, ai diversi possibili significati, della parola anello: l’anello di cui parla la duchessa, infatti, quello di una catena che sbarra la porta di ingresso alla sua abitazione.
In Vipera (Einaudi, 2012) la lingua tradisce la comunicazione in modo diverso. La morta è una prostituta uccisa nella casa di piacere in cui lavorava, e la sua ultima frase è “Frustino, frustino. Il mio frustino”. Qui il tradimento nasce dalla nostra conoscenza del mondo (la cosiddetta shared knowledge) che ricostruisce un falso contesto per l’interpretazione della frase: il frustino in questione, sorprendentemente, non è uno strumento sadomaso, ma l’affettuoso nomignolo attribuito dalla parlante al suo assassino, e si riferisce alla conduzione di cavalli della famiglia di lui.
In La condanna del sangue (Fandango, 2008), infine, la cartomante e usuraia Carmela Scalise recita in eterno il proverbio «’O Padreterno nun è mercante ca pava ìo sabbato» (lett. «Dio non è un mercante che paga il sabato – a scadenze attese»). Ma i proverbi, per la loro concisione e per il loro legame con la cultura tradizionale esprimono contenuti assunti come verità paradigmatiche (come sostiene anche il linguista Cardona), quindi rivestono la funzione di casi generali cui possono essere ricondotte tutte le situazioni ad esse assimilabili secondo vari rispetti; al contrario, però, poiché sono completamente acontestuali sono inservibili per capire un evento. Ascoltando qualcuno per strada che cita un proverbio, chi potrebbe mai capire perché lo ha detto, o a proposito di chi?
Marina Castagneto
Professoressa di Linguistica all’Università del Piemonte Orientale