Giorgia Meloni, perché negare il cognome alle grandi donne non è solo una scelta di stile

Al di là del primo senso di sorellanza, evocare le donne solo per nome è una scelta antidemocratica e con un significato socioculturale preoccupante

C’è un passaggio del discorso di Giorgia Meloni per chiedere la fiducia per il Governo che guida, nella quale la premier accenna alle donne che hanno permesso di sfondare «il tetto di cristallo» (sarebbe il soffitto, ma pazienza, tutti hanno compreso comunque) che finora non aveva consentito in qualche modo a una persona di sesso femminile di ricoprire il ruolo che ora ricopre.

Un ringraziamento significativo, che ricorda a tutti noi che Meloni non dimentica che un percorso fatto di molte battaglie è stato fatto e – si spera – prosegua. Nel nominare alcune delle grandi donne che hanno avuto meriti particolari nella storia del nostro Paese, la premier sceglie di ricorrere al solo nome. Nei primi casi specifica quello che a suo avviso è il merito che viene loro riconosce, poi elenca una serie di nomi di battesimo.

In un primo momento ho pensato che fosse una qualche forma di “cameratismo” al femminile, un modo quasi affettuoso per citare quel gruppo di donne di cui anche lei adesso fa parte. Una scelta linguistica all’insegna della sorellanza, del sodalizio intimo, dell’affinità fra esseri umani che condividono alcune caratteristiche (che stride comunque con quel «penso con riverenza» che precede l’elenco delle donne menzionate: quando mai abbiamo chiamato per nome una persona a cui guardiamo con riverenza?).

Per un attimo mi ha convinto, questa scelta. Poi sono andato al di là di questa patina emotiva estremamente acchiappante e ho riflettuto su due aspetti.

Una scelta antidemocratica

Ho trovato innanzitutto la sua scelta antidemocratica dal punto di vista delle conoscenze. Se il suo discorso era, nella mente di chi l’ha scritto, rivolto al solo Parlamento, dove, si suppone, siedono persone che hanno contezza della recente storia del nostro Paese, allora tutto bene. Ma se il discorso era rivolto a tutti gli italiani e le italiane che spesso menziona la premier, beh, allora la sua scelta potrebbe non permettere a molti di comprendere a chi si stesse riferendo, soprattutto per quell’elenco di nomi che chiude questo passaggio.

Chi è Elisabetta? La nuova ministra per le riforme, Elisabetta Casellati? E Samanta? Qui la mente corre subito a Cristoforetti, ma chissà. Quante persone possono effettivamente intuire il riferimento preciso con il solo nome di battesimo?

«Non importa, il senso resta» potrebbero obiettare alcuni. Eppure, a mio avviso così non è. Ognuna di queste donne ha rotto il proprio «soffitto di cristallo», ha avuto un significato specifico all’interno di un processo generale che riguarda tutti e tutte noi, quello che ci porta sempre più vicini a una convivenza pacifica delle differenze.

Tra cognome e nome, una differenza funzionale c’è

La seconda considerazione riguarda la differenza che è insita nelle funzioni sociali del nome e del cognome. Il primo, lo sappiamo, è quell’insieme di suoni a cui fanno ricorso le persone che ci vogliono bene o per lo meno con cui i rapporti sono piuttosto frequenti. È l’etichetta più frequente nelle interazioni di persona, quando insomma siamo di fronte a qualcuno; anche perché in quel caso non c’è grande difficoltà – a meno che ci si ritrovi fra tre Andrea (a me è successo) – a capire a chi il nome si riferisce. Diverso è il caso di quando citiamo qualcuno che non è presente, dove per l’appunto il cognome aiuta a designare il soggetto specifico.

Al di là di questo, a me pare che proprio il cognome, nella storia linguistico-culturale del nostro Paese, proprio quella di cui Meloni si presenta spesso come paladina, abbia una funzione inerente alla sfera della realizzazione sociale e professionale.

In una suddivisione davvero molto sommaria, il nome regna nella dimensione domestica e privata, mentre il cognome in quella pubblica e sociale, quella cioè in cui da tempo le donne combattono per una parità che a oggi non è ancora raggiunta.

È per questo motivo piuttosto elementare che spazzare via il cognome di una persona in un discorso del genere, con una valenza così pubblica, equivale in qualche modo a contraddirne il contenuto. È con il loro cognome che vengono citate sui titoli, sui premi, sui riconoscimenti. Ed è nella dimensione sociale, dove ci citiamo per cognome, che hanno dovuto lottare molto di più rispetto ai colleghi maschi.

Il/la, meno ideologia, più linguistica

Sinceramente non capisco perché le questioni che ruotano intorno alla lingua siano diventate subito un terreno di scontro ideologico. Quasi come se a utilizzare la premier, o la presidente, Meloni rischiasse di svegliarsi improvvisamente con la tessera del PD tatuata sulla spalla. Forse una quota di responsabilità ce l’hanno avuta anche quelle persone che “sull’altro versante” hanno polarizzato eccessivamente il discorso, e, come invitano in molti, dovremmo cercare di riportare questi discorsi su un piano più scientifico.

E proprio da un punto di vista prettamente scientifico, linguistico, è come se, estremizzando per farmi comprendere, Meloni avesse detto: «tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi non può non esserci anche quello di essere il primo uomo a capo del Governo in questa nazione».

Di fatto la nostra lingua mette a disposizione un termine per l’essere umano di sesso maschile e uno per quello di sesso femminile, così come accade per le professioni e per le cariche, dove questa differenza è affidata (nei nostri esempi) alla declinazione dell’articolo: la/il presidente e il/la premier. Ognuno, lei compresa, è libero di optare per la declinazione maschile, ma come si evince dall’esempio estremo appena citato, la resa può essere molto diversa.

(Foto: Instagram/@giorgiameloni).