Mario Acampa: «l’importanza dell’empatia nelle parole che usiamo»

Attore, regista, conduttore: con Mario Acampa abbiamo parlato del suo rapporto e della sua visione sulle lingue e i linguaggi

L’aggettivo che più si addice a un artista come Mario Acampa è poliedrico. Nel corso della sua già corposa carriera (nonostante la giovane età), infatti, si è cimentato in moltissimi ambiti dello spettacolo: dal teatro di prosa al musical, passando per il cinema, la radio e la televisione. Non solo ambiti differenti, ma anche ruoli eterogenei che includono quello di attore, regista e autore. Negli ultimi mesi lo abbiamo visto come conduttore (nonché autore) de La Banda dei Fuoriclasse, programma educativo in onda su Rai Gulp che attraverso attività multidisciplinari mira a coinvolgere e interessare gli spettatori più giovani; ma Mario Acampa è anche fra i protagonisti di O anche no, programma in onda su Rai2 dedicato alla disabilità e cura la stagione del Teatro alla Scala rivolta ai ragazzi.

Noi lo abbiamo incontrato per parlare un po’ del suo rapporto con le lingue e il linguaggio e di come interessare i più piccoli allo studio linguistico.

Mario, ne La Banda dei Fuoriclasse che tipo di attività avete che riguardano le lingue?

«Siamo molto attenti alle lingue e al linguaggio: abbiamo una rubrica di inglese con Teacher Nelly dove ci occupiamo di lessico, grammatica e un po’ di pronuncia; per quanto riguarda l’italiano abbiamo diverse attività, fra cui la rubrica curata da Mariangela De Luca in cui indaghiamo l’etimologia di alcune parole. Abbiamo perfino fatto un corso settimanale di LIS, la lingua dei segni italiana, e alcune puntate sono state tradotte e sono tuttora disponibili sul sito del programma».

Cosa ne pensi in generale dell’insegnamento linguistico in Italia?

«Posso parlare della mia esperienza personale e dire che nel mio percorso scolastico ho amato molto lo studio delle lingue. Mio padre mi spronò a dedicarmici e già alle medie frequentavo un corso pomeridiano facoltativo di inglese. Ricordo poi che la mia insegnante del liceo provò ad interessarci all’inglese partendo dalle canzoni: uno stratagemma che sospetto usino in molti e che con noi funzionò».

Tu personalmente ti sei sentito in grado di comunicare efficacemente in inglese una volta uscito dal liceo?

«Sì, però devo dire che le attività in classe per me erano solo un punto di partenza. Ho approfondito autonomamente ciò che mi interessava, tra le altre cose, con diversi viaggi a Londra».

Quali sono secondo te gli aspetti nell’insegnamento delle lingue che coinvolgono maggiormente i bambini?

«Per me è indispensabile far capire subito la ricchezza della lingua. È bello far capire che i loro pensieri e le loro emozioni corrispondono a delle parole: era uno degli obbiettivi anche degli interventi di Enrico Galiano, volti a spiegare il fascino di alcuni termini compresi quelli in disuso. Anche l’idea che una parola sia una composizione di lettere li diverte, diciamo l’aspetto artistico della scrittura in cui il segno grafico è una sorta di forma atavica di espressione».

Cosa ne pensi delle proposte per rendere la nostra lingua più aperta alle differenze?

«La lingua va di pari passo con l’educazione sociale e civica, su cui in generale è necessario lavorare molto a scuola, e soprattutto nelle famiglie. Io sono abituato a parlare con una platea indistinta di persone e, ad esempio, ho preso l’abitudine, senza grandi sforzi, di dire ciao a tutti e tutte. Penso sia importante che nell’uso delle parole ci sia una tensione all’empatia, far capire insomma quando parli con qualcuno che lo vuoi coinvolgere e che ti metti nei suoi panni».