Ansiogeno o ansiolitico? Ecco perché facciamo confusione

Nuovo appuntamento della nostra serie «Come si dice?» dedicata ad alcuni dubbi ricorrenti sulla lingua italiana

Ansiogeno o ansiolitico? Qualche volta potrebbe esservi sorto il dubbio nel momento in cui dovevate usare uno di questi aggettivi (il secondo è anche un sostantivo). Niente di allarmante perché di fatto si tratta di due tecnicismi, cioè parole che appartengono a sfere specifiche della vita e che originariamente erano usate solo dagli addetti ai lavori del settore psichiatrico e psicologico.

Ecco, però in questo caso la confusione porta a esiti talvolta buffi, soprattutto per un elemento che riguarda il significato, la semantica, di questi due termini. Sì, perché ricorrere ad ansiogeno o ansiolitico può di fatto portare a esiti comunicativi opposti perché di fatto questi termini sono due contrari.

In entrambi troviamo una prima radice (morfema lessicale, tecnicamente) comune: quell’ansio- che rimanda al disturbo a cui fanno riferimento, l’ansia. Proprio queste lettere condivise portano alcuni di noi a confondersi nonostante la seconda radice – si tratta di parole con più morfemi lessicali – conduca il significato di queste due parole in direzioni opposte.

Il significato di ansiogeno, infatti, è riferito a cose, stimoli o persone che provocano ansia. Quel geno che chiude la parola significa proprio generare, creare e lo troviamo in altri termini, come patogeno (che dà origine a una malattia) o fumogeno (che crea fumo).

Ansiolitico è invece un farmaco che riduce l’ansia grazie a un effetto sedativo. Alcuni di questi sono estremamente noti con il loro nome commerciale (che qui non citiamo) e come spiega la Treccani: «vengono utilmente impiegate nella terapia delle nevrosi, stati ansiosi, depressioni, disturbi del sonno». Sono ansiolitici quindi tutti quei farmaci che dissolvono, sciolgono (la radice lessicale litic- vuole dire proprio che scioglie) gli stati ansiosi.

Quindi, se un amico, mentre gli state chiedendo insistentemente qualcosa, vi dice: «madonna, sei ansiolitico», in realtà vi sta attribuendo una qualità opposta a quella che intende.

Se hai letto altri articoli della serie «Come si dice?» fermati pure qui; in caso contrario continua perché è rilevante essere consapevoli di quanto segue.

Alla domanda «come si dice/scrive questa tal cosa?» un linguista risponderebbe «come la dici/scrivi tu». Questo perché la linguistica è una disciplina che descrive i fenomeni e non è lì pronta con la bacchetta in mano per darti una legnata se non usi il congiuntivo.

Il mantra di chi studia scientificamente il linguaggio è che una lingua è fatta dai parlanti. Siamo tutti noi, cioè, a selezionare le parole, le frasi, i modi e i tempi verbali che riteniamo più efficaci per comunicare i concetti che ci passano per la mente.

Detto ciò, è comunque importante sapere che delle regole grammaticali esistono. Esiste uno standard sia per quel che riguarda la lingua scritta sia per quella orale; ma non si tratta di un riferimento dogmatico che è eticamente immorale non conoscere. No, lo standard nasce per mettere in comunicazione i parlanti, per permette loro di capirsi agevolmente, di ritrovarsi su un terreno comune.

E gli standard, anche quelli, cambiano nel tempo: ciò che è considerato linguisticamente ineccepibile oggi, potrebbe non esserlo più domani. Di più: l’aderenza alla lingua standard è interpretata con maggiore o minor rigore a seconda del contesto in cui comunichiamo. Come sottolinea Gaetano Berruto nel suo Che cos’è la linguistica (Carocci), il linguista «per molti aspetti è la persona più indicata per farlo [dare giudizi sulle produzioni linguistiche, ndr]: ma il suo giudizio semmai non sarà di ‘giusto’ o ‘sbagliato’ in assoluto, bensì di ‘appropriato’ o ‘inappropriato’ in quel determinato contesto».

Un congiuntivo che scappa in un messaggio di WhatsApp non ha lo stesso “peso” di una dimenticanza analoga in un tema scolastico o in una presentazione di lavoro. Questo perché anche le nostre attese nei confronti di una presunta perfezione linguistica variano nei diversi luoghi (fisici e digitali) in cui scriviamo e parliamo. Quindi alla domanda «ma è giusto dire così?», un’altra risposta molto da linguista è «dipende dalla situazione in cui lo dici».

Infine, la bellezza della lingua sta (anche) nel fatto che non si smette mai di imparare. Anche il più blasonato lessicografo (il professionista che compila il dizionario) può non conoscere l’esatta posizione di un accento di una parola che, sì, esiste, ma in pochissimi ormai utilizzano.

Per questo la serie «come si dice?» deve essere sempre maneggiata con queste consapevolezze, ricordandoci che in fondo in fondo – ed esclusi contesti percentualmente meno ricorrenti – il minimo sindacale che possiamo pretendere da un atto comunicativo è far sì che il nostro interlocutore ci comprenda. Tutto il resto è pane per i grammarnazi (a cui dedichiamo una linguetta affettuosa di Linguinsta).