Leggendo il testo della petizione si nota uno scollamento fra le parole scelte e lo scopo dichiarato che fa sorgere qualche dubbio sulla sua finalità
La petizione sullo schwa, o meglio, contro lo schwa, occupa il dibattito pubblico socio-culturale da giorni. Per chi si fosse appena sintonizzato, ricapitoliamo in poche righe l’accaduto. L’italiano distingue due generi grammaticali, maschile e femminile, e non offre così la rappresentazione di alcune identità, come ad esempio quelle delle persone non binarie o transgender. Lo hanno ripetuto ormai perfino i sassi, ma meglio specificare: questa mancata rappresentazione riguarda solo i termini (e le desinenze o, tecnicamente, i morfemi grammaticali) che esplicitano, danno l’informazione, sull’identità di genere di una persona.
Bene, c’è chi ha proposto alcune ipotesi per superare questa mancanza di rappresentazione, fra cui, oltre all’asterisco, alla X e alla U, c’è lo schwa, un suono vocalico indistinto che nello scritto – ma anche nell’alfabeto fonetico – è rappresentato al singolare da una e rovesciata, ə, e al plurale da questo simbolo 3. Chi tra gli scriventi lo ha ritenuto convincente lo ha iniziato a utilizzare, pur riscontrando non poche difficoltà pratiche, peraltro evidenziate anche da chi, come la sociolinguista Vera Gheno, ne ha diffuso la conoscenza.
Nei mesi scorsi si sono moltiplicati i contesti che lo hanno abbracciato, ma pochi giorni fa è successo che anche in sei verbali del Ministero dell’Istruzione comparisse la letterina più discussa degli ultimi anni. Così, Massimo Arcangeli, professore ordinario di linguistica italiana all’Università di Cagliari, ha creato una petizione su Change.org per chiedere di interrompere l’uso dello schwa. La petizione è sottoscritta da diversi linguisti noti del nostro Paese, fra cui citiamo su tutti Luca Serianni e Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca.
Altri si sono già spesi nel rilevare alcuni aspetti “curiosi” del testo della petizione. Noi ci siamo soffermati sul rapporto tra la sua forma e il suo scopo.
Nessuno può vietare alle persone comuni di utilizzare strumenti linguistici che ritengono efficaci per i loro scopi comunicativi: è un po’ come se si proponesse di vietare ai bambini l’alfabeto farfallino o come se una petizione avesse chiesto di bandire l’uso del cmq e del xké ai tempi dell’esordio degli sms. Non esiste una polizia linguistica che ti bussa alla porta di casa e ti dice: «sai che c’è? Per quel cmq che hai scritto a tua sorella adesso cacci 20 euro, 35 se paghi fra dieci giorni». Questa sì, che è fantalinguistica.
Ecco, qualsiasi persona che abbia aperto anche solo per sbaglio il capitolo introduttivo di un manuale di linguistica generale, sa che questa operazione è davvero impossibile, anche solo per il noto ritornello che la lingua la fanno i parlanti stessi. Un linguista vero, secondo quanto scrive anche un “gigante” della linguistica come Gaetano Berruto, osserva e si pone domande sulle scelte linguistiche, per quanto distanti dallo status quo linguistico (in questo articolo trovate qualche informazione in più sul tema).
Nel caso dello schwa, e in generale delle ipotesi per rendere la lingua più inclusiva, la volontà di castrare queste sperimentazioni risulterebbe disdicevole anche umanamente. Come lo spieghi a tuo figlio che ti stai adoperando per proibire alle persone di sentirsi più a proprio agio con la lingua che usano tutti i giorni? «Ah, piccolo mio, gliel’ho proprio fatta a quei quattro scapestrati: pensavano di potersi finalmente ritrovare un po’ di più nelle parole che scrivono e invece adesso devono usare le parole che ho deciso io». Insomma, davvero impensabile.
Leggendo il testo della petizione, tuttavia, pur se sottoscritta da linguisti stimati, si ha l’impressione che intenda proprio proibire l’uso dello schwa in generale. Dopo la sua pubblicazione e i numerosi articoli che sono stati scritti sul tema, il professor Arcangeli ha sottolineato che lo scopo non è questo, bensì, come riporta un’intervista apparsa sul Secolo d’Italia, «bloccare la possibilità di una qualsiasi commissione pubblica di adottare questo tipo di segni grafici».
Bene, questo è più che sensato. Lo è davvero, perché lo schwa non ha una diffusione democratica, comprensibile – né utilizzabile – da tutti, e un documento di interesse pubblico non dovrebbe (a oggi) ricorrervi.
Però, allora qualcosa nella forma, scelta da linguisti, da studiosi di lingua, della petizione non funziona perfettamente. Ad esempio, il titolo – «Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra» – perché non menziona il contesto comunicativo interessato dallo scopo della petizione? Così, in due secondi, «Petizione per bloccare l’uso dello schwa in documenti di pubblico interesse». Non era forse comunicativamente più efficace per lo scopo esplicitato a posteriori dai proponenti della petizione?
E se lo scopo era davvero quello di abolire l’uso dello schwa in comunicazioni ufficiali, possibile che a questo aspetto siano dedicate 34 parole su 421, cioè circa l’8%? È senza dubbio una proporzione curiosa, se lo scopo è quello.
A questo elemento se ne aggiungono altri nel testo della petizione che fanno sorgere ulteriori interrogativi. Dal punto di vista lessicale c’è nella prima riga incompetenti in materia linguistica; chi dovrebbero essere? I parlanti/scriventi che lo usano? Studiose come Vera Gheno o Manuela Manera che da anni si occupano di temi come questi?
Un inciso che ci pare significativo: che piaccia o non piaccia Vera Gheno, c’è un fatto non trascurabile che per chi si interessa di linguistica. A mia memoria non ricordo molti linguisti che sono stati in grado di introdurre nel dibattito pubblico riflessioni così estese su fatti di lingua come ha fatto Vera Gheno, prima con i femminili professionali e poi con le ipotesi per una lingua in cui possano convivere più diversità possibili. Quando mai è accaduto che sui mezzi di informazione si parlasse così tanto di fonemi, italiano standard (questo sconosciuto), e desinenze? Che poi, se fosse lei uno degli incompetenti a cui la petizione si riferisce, ci viene da sottolineare che nella nostra percezione non “vende soluzioni, ma solidi dubbi”, per fare il verso a un noto spot pubblicitario.
Evidentemente, però, devono esserci altri personaggi a cui la petizione fa riferimento che pretendono un’imposizione dell’uso dello schwa, se no non si capirebbero scelte lessicali del tipo regole inaccettabili, imporre la sua legge e azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale. Chiunque essi siano, devono avere a disposizione un potere sconfinato.
Un ultimo dubbio: ma perché le energie per fare una petizione del genere, contattare un tot di personaggi noti a cui farla sottoscrivere e promuoverla sui mezzi di informazione, non potevano essere convogliate nell’organizzazione di un dibattito fra esperti, serio e soprattutto lontano da polarizzazioni che sembrano solo voler attirare l’occhio di bue della ribalta pubblica? È un dubbio che si pongono in molti e che riporta alla domanda del nostro titolo: qual è lo scopo di una petizione del genere?
Michele Razzetti