Cosa puoi chiedere (e cosa no) ai linguisti

Se conoscete un linguista, molto probabilmente gli avrete chiesto come si scrive il plurale di valigia, ma la linguistica è molto più di questo e lo ricorda Gaetano Berruto nel suo ultimo libro

Quando mi chiedono che cosa abbia studiato nel mio percorso universitario, da qualche anno rispondo sempre «scienze del linguaggio». Poi osservo l’aria spaesata del mio interlocutore e integro con altre informazioni perché molto spesso questa non è sufficiente. E lo era ancor meno quando la mia risposta era semplicemente «linguistica». Già, perché la domanda pressoché immediata era: «ah, bello, e quali lingue hai studiato?». Un siparietto che evidentemente deve capitare da decenni ai linguisti visto che, grossomodo in questi termini, viene riportato anche da Gaetano Berruto nel suo recente Che cos’è la linguistica, edito nella collana delle Bussole di Carocci.

Berruto non è un linguista mediatico come Beccaria e non ha ricoperto, che io sappia, alcun ruolo politico prestigioso, come è successo a De Mauro. È uno studioso discreto, forse schivo nei confronti di certi tipi di esposizione, ma secondo la mia modesta opinione (e non solo la mia) è uno dei più significativi (socio)linguisti contemporanei, nonché uno dei docenti più straordinari che abbia incontrato.

Questo almeno per due motivi. Il primo è “colpo di scena” che mi impressionò al tempo dei miei studi, quando nell’aula magna dell’Università di Torino, dopo poche lezioni del suo corso di Linguistica Generale, iniziò a chiamare noi studenti per cognome; riformulo per chiarire: fra centinaia di universitari indicava una persona che aveva visto per qualche ora e la chiamava per cognome come se questa indossasse un cartellino con le sue generalità. Noi studenti, sbalorditi.

Ma soprattutto in Berruto ho scorto con una certa ammirazione una caratteristica rara a mio avviso: una preparazione per me sorprendente nei campi di studio (cito qui “solo” la sociolinguistica e il contatto linguistico) di cui si occupa, unita a un’umiltà e una gentilezza disarmanti. Da lui, per la prima volta, ho capito che il linguista non è un maestrino dotato di penna rossa: come spesso si sente ripetere – e a volte purtroppo devo dire che rimane un’intenzione teorica più che un’attitudine confermata dai fatti – il linguista non prescrive, ma descrive (lo vediamo tra poco).

Questa sua ultima pubblicazione – che consiglio a tutti sebbene non abbia un taglio divulgativo – mi ha ispirato questo articolo su ciò che ci si può aspettare da un linguista, riprendendo in parte ciò che lui spiega nel primo capitolo.

Tornando al siparietto iniziale, Berruto nel libro mette le cose in chiaro: «Fare il linguista non vuol dire praticare tante lingue straniere». Proprio così, e se avete qualche amico o conoscente che vi dice di aver studiato linguistica, sappiate che la domanda giusta è semmai: «quindi sai come funzionano il linguaggio e le lingue?». Perché il nucleo del sapere di un linguista è dato da due elementi: consapevolezza (anche Berruto sceglie questo sostantivo, e qui su Linguinsta, soprattutto nella serie Come si dice/Come si scrive ci torniamo ripetutamente) teorica e capacità di analisi dei fatti linguistici.

Questo non implica che agli amici linguisti – come spesso accade – possiate chiedere qualsiasi consulenza grammaticale perché il grammatico è una professione diversa (e sospetto abbastanza difficile da scovare ormai). Sul motivo per cui anche nei fatti di lingua le persone vogliano avere un bianco e nero, un giusto e sbagliato, Edoardo Lombardi Vallauri ha espresso un’opinione interessante: «Il linguista […] dovrebbe fornire regole ineccepibili a cui affidarsi, per essere liberati di ogni scomoda libertà, da cui discendono incertezza, necessità di esercitare il giudizio sui casi reali, possibilità di sbagliare, responsabilità» (Rassegna Italiana di Linguistica Applicate, 2-3/2020, p. 264).

Non chiedete quindi ai linguisti come scrivere o dire una certa cosa, perché loro saranno piuttosto interessati a come la dite voi, a capirne i motivi, a valutarne l’efficacia comunicativa in riferimento agli scopi che vi siete prefissati. «Per il linguista ogni fatto e ogni prodotto linguistico, anche quello più deviante, sgrammaticato, strano o erroneo, ha lo stesso diritto di cittadinanza di ogni altro, e non va immediatamente sanzionato o condannato, bensì va analizzato e spiegato, cercando di capire le regole secondo cui è stato prodotto, la funzione comunicativa che ha nel contesto in cui compare, i condizionamenti posti dalla situazione d’uso […], e il contributo che esso dà circa la comprensione generale dei fatti di linguaggio».

Detto ciò, è però altrettanto importante specificare che il linguista rimane una delle figure professionali più indicate per esprimere considerazioni circa l’appropriatezza delle produzioni linguistiche: «ma il giudizio semmai non sarà di ‘giusto’ o ‘sbagliato’ in assoluto, bensì di ‘appropriato’ o ‘inappropriato’ in quel determinato contesto».

Oltre al poliglotta e al maestrino severo, c’è una terza missione affibbiata solitamente ai linguisti: quella di spiegare l’origine storica e il significato delle parole; di dettagliarne, insomma, l’etimologia. Per quanto questa disciplina linguistica susciti l’interesse di molti – anche fra i non addetti al settore – l’etimologia rappresenta uno spicchio contenuto del mare magnum della linguistica.

Berruto nel volume citato, dopo aver detto ciò che non è (solo) un linguista, fornisce la sua definizione di questa figura: «il linguista è uno studioso che cerca di capire, analizzare e spiegare il linguaggio verbale umano e i fenomeni che lo costituiscono nelle varie forme in cui esso si manifesta, tenendo conto per il possibile dei molteplici aspetti che questo comporta, e delle dicotomie e distinzioni che ne discendono».

Michele Razzetti