Con la doppia o no? Le parole più insidiose

Nuovo episodio della serie «Come si scrive», dedicato a quelle che alle elementari chiamavamo «doppie»

Non sono poche le parole che ciclicamente ci costringono a fare un controllo su Google (e non c’è niente di male e dopo capiamo il perché). Alcune, in particolare, ci insinuano un dubbio specifico: ma quella consonante è doppia o singola?

Micro-preambolo sul rapporto tra suono e grafia. In parole come gatto, se ci fate caso, noi non diciamo gat-t-o, cioè non ripetiamo due volte il suono della /t/; sul piano dei suoni non dovremmo quindi parlare di doppie, come ci insegnano all’elementari, ma di suoni intensi perché di fatto quella t non si ripete. La doppia letterina è necessaria per dare una forma scritta a quella maggiore intensità.

Alcune benedette parole, però, possono essere pronunciate in modo diverso dal modo in cui vorrebbero i manuali di ortoepia; di conseguenza può accadere che le scriviamo in modo scorretto. Uno degli esempi più eloquenti è accelerare che molti di noi fin da bambini hanno pronunciato con la l intensa: *accellerare. Ebbene no; a me lo ha insegnato curiosamente la professoressa di fisica del liceo: ci va una l sola.

Anche in scorrazzare scorrazza una r bella intensa in realtà: questo verbo andrebbe quindi scritto con due r. Un discorso analogo vale per l’aggettivo esterrefatto che come spiega il Nuovo Devoto Oli «ha alla base il verbo latino terrēre ‘spaventare’, da cui derivano anche l’aggettivo terribile, il sostantivo terrore, il verbo atterrire, tutte parole che come esterrefatto si scrivono con la doppia r. Molto diffusa ma erronea è la grafia *esterefatto, con scempiamento (cioè con passaggio da suono intenso a breve) della doppia r. Va considerato che l’aggettivo ha perso nel tempo il suo legame semantico con la base etimologica e significa oggi ‘stupefatto’ più che ‘atterrito, terrorizzato’».

C’è poi attecchire che talvolta erroneamente viene scritto con una sola c, con la /k/ (questo è il modo in cui si scrive il suono della c dura) scempia e recentemente io stesso ho maturato la consapevolezza che avallare nel senso di “rendere credibile” ha una v sola: prima di qualche mese fa, pronunciavo questo verbo sempre con una v intensa e di istinto scrivevo avvallare, che esiste pure, ma ha un altro significato e cioè “far scendere a valle” o, se usato intransitivamente, “presentare un cedimento, una depressione”.

Insomma, tutte parole un po’ biricchine, come tendo a pronunciare io stesso: ma in realtà anche questo aggettivo si scrive con una c sola: birichino.

Se hai letto altri articoli della serie «Come si scrive?» fermati pure qui; in caso contrario continua perché è rilevante essere consapevoli di quanto segue.

Alla domanda «come si dice/scrive questa tal cosa?»un linguista risponderebbe «come la dici/scrivi tu». Questo perché la linguistica è una disciplina che descrive i fenomeni e non è lì pronta con la bacchetta in mano per darti una legnata se non usi il congiuntivo.

Il mantra di chi studia scientificamente il linguaggio è che una lingua è fatta dai parlanti. Siamo tutti noi, cioè, a selezionare le parole, le frasi, i modi e i tempi verbali che riteniamo più efficaci per comunicare i concetti che ci passano per la mente.

Detto ciò, è comunque importante sapere che delle regole grammaticali esistono. Esiste uno standard sia per quel che riguarda la lingua scritta sia per quella orale; ma non si tratta di un riferimento dogmatico che è eticamente immorale non conoscere. No, lo standard nasce per mettere in comunicazione i parlanti, per permette loro di capirsi agevolmente, di ritrovarsi su un terreno comune.

E gli standard, anche quelli, cambiano nel tempo: ciò che è considerato linguisticamente ineccepibile oggi, potrebbe non esserlo più domani. Di più: l’aderenza alla lingua standard è interpretata con maggiore o minor rigore a seconda del contesto in cui comunichiamo. Come sottolinea Gaetano Berruto nel suo Che cos’è la linguistica (Carocci), il linguista «per molti aspetti è la persona più indicata per farlo [dare giudizi sulle produzioni linguistiche, ndr]: ma il suo giudizio semmai non sarà di ‘giusto’ o ‘sbagliato’ in assoluto, bensì di ‘appropriato’ o ‘inappropriato’ in quel determinato contesto».

Un congiuntivo che scappa in un messaggio di WhatsApp non ha lo stesso “peso” di una dimenticanza analoga in un tema scolastico o in una presentazione di lavoro. Questo perché anche le nostre attese nei confronti di una presunta perfezione linguistica variano nei diversi luoghi (fisici e digitali) in cui scriviamo e parliamo. Quindi alla domanda «ma è giusto dire così?», un’altra risposta molto da linguista è «dipende dalla situazione in cui lo dici».

Infine, come ho sentito ripetere spesso alla sociolinguista Vera Gheno – un concetto che sottoscriviamo con tutte le penne di cui possiamo disporre – la bellezza della lingua sta (anche) nel fatto che non si smette mai di imparare. Anche il più blasonato lessicografo (il professionista che compila il dizionario) può non conoscere l’esatta posizione di un accento di una parola che sì, esiste, ma che in pochissimi ormai utilizzano.

Per questo la serie «come si dice?» deve essere sempre maneggiata con queste consapevolezze, ricordandoci che in fondo in fondo – ed esclusi contesti percentualmente meno ricorrenti – il minimo sindacale che possiamo pretendere da un atto comunicativo è far sì che il nostro interlocutore ci comprenda. Tutto il resto è pane per i grammarnazi (a cui dedichiamo una linguetta affettuosa di Linguinsta).