Al Festival di Sanremo, Beatrice Venezi rivendica il diritto di farsi chiamare direttore e non direttrice d’orchestra; ma un presupposto è totalmente sbagliato
Sì, Beatrice Venezi, giovane talento della direzione d’orchestra, ha detto di assumersene le responsabilità. Di cosa? Delle parole che ha pronunciato nel corso della sua partecipazione al festival di Sanremo. Forse sapeva che ciò che stava per dire non sarebbe stato condiviso da molti.
In relazione al modo in cui la chiamano quando menzionano la sua professione, la Venezi ha detto di preferire direttore d’orchestra al corrispettivo direttrice. Una posizione che è sacrosanta, non discutibile in sé: ognuno può scegliere di farsi chiamare come meglio crede nei diversi contesti.
Ciò che però non regge molto è il tentativo di dare una spiegazione valida alla sua volontà. Per Beatrice Venezi – afferma – contano talento e preparazione nella propria professione: chi potrebbe contraddirla? Cioè, a onor del vero, molti italiani sanno che purtroppo spesso nel nostro mondo del lavoro così non è purtroppo, ma lasciamo perdere questo discorso.
Venezi prosegue con un’affermazione che è totalmente soggettiva ma non viene veicolata con gli strumenti linguistici pertinenti alla relatività di un’affermazione. In modo piuttosto perentorio afferma infatti che «le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è direttore d’orchestra»; proprio qui la sinfonia si interrompe, per lo meno da una prospettiva linguistica.
Chi ha avuto modo di seguire un minimo il dibattito sui nomi professionali femminili dovrebbe aver intuito che la lingua segue la realtà. Quando una professione che in precedenza veniva svolta solo da uomini inizia a contare esponenti femminili, allora è possibile che si inizi a usare anche il femminile, formato seguendo le diverse possibilità offerte dal nostro sistema di derivazione morfologica. Quindi non è vero da un punto di vista linguistico che una professione può essere indicata solo al maschile, come nel caso di direttore d’orchestra. Direttrice – e anche direttora – esiste, viene utilizzato molto, e può essere il nomina agentis per indicare una donna che sale sul podio di un’orchestra.
Lo rileva anche la sociolinguista Vera Gheno, autrice del libro Femminili Singolari, che sul suo profilo Facebook si rammarica del fatto che «Venezi motivi la sua scelta con un’affermazione che non ha fondamento scientifico: la sua frase “la professione ha un nome preciso” non ha senso, molto semplicemente; altrimenti avremmo solo professori, sarti, artisti, poeti, scrittori, cassieri, rettori, operai, re, infermieri eccetera. E invece abbiamo professoresse, sarte, artiste, poete(sse), scrittrici, cassiere, rettrici, operaie, regine e infermiere». (Per un approfondimento – anche divertente – potete guardare il video dell’incontro di 6per6 dedicato al linguaggio inclusivo, in cui abbiamo trattato anche il tema dei femminili professionali).
Quindi sì, le professioni hanno una parola che le comunica, ma questa non è necessariamente – per ragioni intrinseche alla lingua – maschile o femminile. Sappiamo solo che se continuiamo a utilizzare solo il maschile, forse persisterà lo stupore nel vedere una donna sul podio, un fatto assolutamente normale in un mondo che non discrimina le persone in base al sesso. E, forse, una cassa di risonanza potente come il Festival di Sanremo poteva essere l’occasione per una riflessione più profonda su aspetti così identitari della lingua.