A Carloforte c’è una comunità che nei secoli si è differenziata dal resto della Sardegna e ancora oggi parla il tabarchino, una varietà di genovese
Nella Giornata internazionale della Lingua Madre, abbiamo deciso di dedicare una piccola serie ad alcune curiosità che riguardano le lingue che si parlano in Italia. Già, nel territorio del nostro Paese, non si parla solo italiano, ma anche quelli che per comodità definiamo dialetti e lingue che istintivamente non assoceremmo all’Italia. Fra queste ci sono il ladino, che no, non è il risultato di un refuso sulla parola latino, il walser, che nulla c’entra con il walzer, l’albanese e il greco. E poi ancora, fra le comunità linguistiche riconosciute dalla legge 482 del 1999, troviamo il franco provenzale, il catalano, il friulano, il sardo e il tedesco.
Senza addentrarci nella complessa definizione di minoranza linguistica, in questo articolo grazie a Fiorenzo Toso, professore ordinario di linguistica generale all’Università di Sassari e uno dei massimi esperti di minoranze linguistiche in Italia, ci dirigiamo in Sardegna dove troviamo una varietà linguistica di cui pochi avranno sentito parlare, il tabarchino.
Con questo termine si indica una varietà di genovese che si parla su due isolette della Sardegna, San Pietro e Sant’Antioco, nelle cittadine di Carloforte e Calasetta. Sì, avete letto bene, in una zona della Sardegna si parla genovese: un’evenienza che per quanto sorprendente non è poi così rara. Succede continuamente che le migrazioni portino gruppi di persone da un luogo all’altro: con loro si muove anche la lingua materna che in determinate circostanze – il linguista Bartoli ne aveva intuite alcune già agli inizi del Novecento – può conservarsi nel corso dei secoli.
Certo, alcuni elementi contribuiscono in modo determinante alla conservazione di questo tratto identitario per molti anni. «Gli abitanti di Carloforte sono diversi dagli altri sardi non soltanto per la lingua, che purtroppo non è riconosciuta come minoranza sebbene sia parlata dal 90% della popolazione» ci spiega Toso. «Storicamente, infatti, i tabarchini, approdati in Sardegna dopo una presenza di due secoli in Tunisia, si sono differenziati anche per le loro attività economiche che riguardavano essenzialmente la pesca e le tonnare, ambiti che i sardi non presidiavano. Questa barriera economica e culturale ha contributo moltissimo a mantenere l’uso della loro lingua».
Un fenomeno, questo, che ha interessato anche le piccole comunità germanofone delle Alpi, che «avevano caratterizzazioni economico sociali peculiari: spesso si trattava, infatti, di minatori chiamati nel corso del Medioevo da feudatari locali a praticare l’attività mineraria, mentre il resto della popolazione di quelle valli era contadino».
Una lingua resta in vita soprattutto se ci sono contesti comunicativi in cui torna utile, in cui è fondamentale, addirittura. Fra questi, quelli legati all’economia e al lavoro sono cruciali. Ma non sono gli unici: per altre piccole comunità, ad esempio, è stata (anche) la religione a creare le condizioni affinché una lingua – diversa da quelle delle popolazioni circostanti – continuasse a essere utilizzata. È il caso dell’occitano nelle valli alpine piemontesi e dell’albanese nelle regioni meridionali.
«Gli albanofoni dell’Italia meridionale hanno mantenuto non solo un’identità linguistica, ma anche una certa consapevolezza di essere membri di un’unica comunità. Un ruolo l’ha avuto anche l’aspetto religioso: sono cattolici di rito bizantino e seguono quindi la liturgia orientale, un tratto che li differenzia ulteriormente dalle comunità circostanti. Analogamente, la fede valdese ha contribuito a conservare l’occitano in alcune valli del Piemonte» conclude Toso.
Per approfondire questi argomenti consigliamo il volume di Fiorenzo Toso: Le Minoranze Linguistiche in Italia (il Mulino).
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