Un neologismo – guarda un po’ – inglese che riflette una maggiore attenzione della società alla parità di genere
Facendo il mio solito giro quotidiano fra le edizioni online dei principali giornali mi sono imbattuto in un articolo di Michela Murgia apparso su Repubblica in cui ho scoperto un termine che non conoscevo e che vorrei condividere con voi.
La (ricorrente) brutta notizia è che si tratta di un neologismo inglese. Salvo abusi ai limiti dell’imbarazzo, non ho niente contro l’inglese, anzi; ma in alcuni momenti sembra che la creatività linguistica ormai sia un’attività esclusiva dei paesi anglofoni. Noi tiriamo fuori al massimo petaloso (che peraltro, a dispetto della roboante eco mediatica non figura nei dizionari).
Per carità, forse non dovrei stupirmi più di tanto se consideriamo che quello americano è a parere di molti storici l’unico impero sopravvissuto; intendiamoci, il loro imperialismo non è basato sulla forza delle truppe, ma sulla sua centralità economica: è un impero commerciale a tutti gli effetti che per molti anni – ora la situazione è più variegata – ha avuto un primato globale in molti settori. Da questa supremazia economica ne sono derivate altre – pensate all’ambito del marketing (!) ma anche a quello accademico – in cui è parso quasi naturale che la lingua veicolare, la lingua franca, fosse proprio l’inglese.
Ora, sorvolando sulla lingua in cui è stato ideato, la scoperta di un nuovo termine è per me fonte di una qualche gioia, di un brividino, ecco. Il sostantivo in questione è manel. Così dice poco, ma se si risale ai termini da cui deriva la sua sequenza fonetica (i suoni che lo compongono) si capisce di più: all (tutti), che non ha lasciato tracce visibili nel neologismo, man (uomo) e panel (gruppo, comitato, ma anche giuria di esperti secondo quanto riporta WordReference).
E così manel oggi viene utilizzato anche per riferirsi a quegli eventi in cui sono coinvolti solo oratori uomini, solo maschi. Un fenomeno che forse prima passava inosservato, ma che ora, come scrive la Murgia, suscita un «boicottaggio internazionale, con cellule di attivismo anche in Italia». Lo stesso Festival della Bellezza in programma all’Arena di Verona avrà un quasi manel (una donna è invitata a fronte di oltre 25 relatori maschi) e la sproporzione non è passata inosservata – e per fortuna, anche se gli organizzatori sostengono di aver invitato diverse donne che non potranno intervenire per problemi di diversa natura – scatenando diverse rimostranze sui social anche da parte di intellettuali e scrittrici, fra cui Teresa Ciabatti.
Che dire, se da un lato dobbiamo pupparci un ulteriore neologismo straniero (avete proposte per alternative in italiano?), dall’altro non possiamo che rallegrarci che almeno l’inglese stia accogliendo con maggiore prontezza termini che aiutano a creare anche da un punto di vista linguistico una società più equa. Perché quando un nuovo termine inizia a circolare e a essere utilizzato significa che esiste, anche a livello cognitivo, un’etichetta per una porzione di realtà, per quanto spiacevole, che prima passava inosservata.
Così come in altri settori, un bilanciamento del genere sessuale di coloro che prendono parte come relatori a manifestazioni pubbliche è auspicabile. Non si tratta di femminismo (ma anche sì e va benisssimo così), ma di pluralità di sguardi; e lo sguardo delle donne – qui mi sbilancio – spesso è più bello e seducente di quello dei colleghi maschietti.