Comunicare fra partner può essere complesso già quando si parla la stessa lingua, figuriamoci quando le lingue sono differenti
Conoscete il detto «moglie e buoi dei paesi tuoi»? Bene, nel mio caso, non si applica neanche un po’. Certo, lo si è sempre saputo, vivere con un partner che ha le tue stesse origini socio-culturali e geografiche rende certi aspetti comunicativi molto più semplici. Dall’altro lato, però, il continuo confronto linguistico fra due partner con due lingue madri differenti può portare nella coppia una ricchezza inestimabile. Come cambia il nostro linguaggio quando ci si trova a vivere fianco a fianco con una persona che proviene dall’altra parte del mondo? Vi racconto la mia esperienza.
Io, ragazzo italiano e ricercatore universitario, ho avuto il privilegio di girovagare per il mondo, per brevi o lunghi periodi, soprattutto per motivi lavorativi. Amelia, la mia compagna, è invece originaria di Singapore, ex-colonia britannica diventata indipendente solo nel 1965, culla di un mix di etnie prevalentemente malesiane, indiane e cinesi. Lì le lingue parlate sono ben quattro: malese, cinese, tamil (una lingua derivante dall’indiano parlata prevalentemente in India, Sri Lanka e Singapore) con l’inglese che fa da collante, da “lingua franca” che si è imposta di fatto come prima lingua. Insomma, un mix etnico-linguistico da capogiro!
La domanda nasce allora spontanea: come si affronta la quotidianità con un tale miscuglio linguistico? Il risultato è davvero sorprendente e ricco di risvolti divertenti nella sua teatralità. Scene tragicomiche in cui ci sono io che da un lato cerco di imparare i quattro toni cinesi (sì, sono proprio tanti!) con i quali una parola cambia totalmente significato seppur conservando gli stessi suoni.
Ad esempio, chiedere un po’ di riso, a volte rischia di risultare “frustrante”. In cinese, infatti, la parola fan con un accento tonale significa riso, ma con un altro, frustrazione. Indovinate un po’ cosa ottengo tutte le volte? Vani sono i tentativi di aiutarmi con il corpo nel cercare di riprodurli correttamente. Risultato? Tremendo torcicollo, nell’andare su e giù con la testa, in perfetto stile serpente a sonagli impazzito.
Lei dal canto suo assorbe tutte le piccole reazioni e frasi fatte che prendo in prestito sia dall’italiano sia dal mio dialetto, il salentino. Ed è così che la confusione generale aumenta ancora di più, nell’incapacità di discernere l’italiano dal dialetto, unita alla difficoltà di associare al verbo la giusta coniugazione o all’aggettivo il giusto genere in accordo con il proprio articolo. Ad aggiungere benzina sul fuoco arrivano le beffarde particelle pronominali. Il risultato in questo caso? Meno guai fisici ma molte più grasse risate, e pazienza se poi quello che ne viene fuori risulta essere: «Non MI se ne frega» oppure «Perché mi ridi?», con faccia rigorosamente incattivita e tanto di broncio.
Ma un rovescio della medaglia c’è: di contro a uno smodato divertimento e a un continuo arricchimento reciproco, si rischia di andare verso una sorta di “appiattimento” linguistico, soprattutto lessicale e sintattico. Per rendere la comunicazione più efficace, infatti, si cerca spesso di usare termini già familiari a entrambi, anziché sostituirli con sinonimi più ricercati, finendo per formulare frasi dalla struttura sempre più semplice. Una sofferenza per noi italiani, poeti nel sangue che amano complicarsi la vita talvolta anche da un punto di vista linguistico. O forse no?
Alessio D. Lavino
(Nella foto uno degli scatti che Alessio e la compagna Amelia hanno inserito nel loro profilo comune Penguinfeasts in cui raccontano la loro quotidianità culinaria sospesa tra la tradizione italiana e quella orientale).