Un lessico specifico, ampio spazio all’inglese e parole usate con significati particolari: ecco la lingua degli influencer
Ogni contesto specifico sviluppa un proprio microcodice, una propria microlingua. Una versione leggermente diversa sotto diversi profili rispetto alla lingua che usiamo tutti i giorni: la differenza il più delle volte riguarda il lessico, le parole usate e il significato che si attribuisce loro. Chi ha letto Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg, lo sa bene: anche fra le mura domestiche ci sono parole che vengono usate solo lì (per lo meno con quel significato). E un discorso analogo si applica alle professioni: ci sono in particolare formule e tecnicismi ricorrenti. Alcuni di questi travalicano le mura linguistiche di quello specifico lavoro e riescono a diffondersi anche in altri ambiti: un caso emblematico è quello del lessico – purtroppo anglicizzante oltre ogni ragionevole motivazione – del marketing.
Tra le professioni più giovani, ce n’è una che sta definendo uno stile comunicativo piuttosto peculiare: gli influencer (o creator come spesso si autodefiniscono). Chi segue con costanza i profili di alcuni di questi ragazzi (quasi sempre sono piuttosto giovani) sa, ad esempio, che ci sono termini molto ricorrenti: experience, routine, unboxing sono solo alcuni esempi.
Quali caratteristiche inizia ad assumere quindi la lingua degli influencer? Lo abbiamo chiesto ad Anselmo Prestini, autore del recente Per un pugno di follower (Vallardi).
Anselmo, anche tu pensi che gli influencer stiano sviluppando un microcodice linguistico specifico?
«Sì, e a più livelli: non solo nella comunicazione con le persone che ci seguono, ma anche nelle relazioni professionali con le agenzie con cui collaboriamo. Quest’ultimo ambito è costellato di parole tipiche del marketing, come brief che io non avevo mai sentito prima di fare questo lavoro».
Nel modo in cui comunicate con i vostri follower, in particolare, quali sono le specificità?
«Prima di tutto è importante sottolineare che i marchi con cui lavoriamo possono imporre contrattualmente l’utilizzo di determinate parole».
Ad esempio?
«L’esempio più tipico è unboxing, cioè il processo con cui si apre e si rivela un prodotto che si sta promuovendo. Dobbiamo chiamarlo proprio così».
C’è altro?
«Sì, un’altra caratteristica tecnica, che ha motivi anche legali, è l’uso nello scritto di hashtag specifichi che segnalano il modo in cui abbiamo ottenuto ciò che mostriamo. Penso a #gifted per un prodotto che ci viene offerto ma per mostrare il quale non siamo pagati; #supplied è grossomodo lo stesso ma fa riferimento in genere a un’esperienza. Infine, c’è #adv che segnala che si è pagati per fare quella pubblicità».
Gifted, adv, supplied: l’abuso di termini stranieri non rischia di escludere dalla comprensione una fetta di seguaci?
«Forse fino a qualche anno fa, ma secondo me oggi tutti coloro che seguono i profili degli influencer sono in grado di capire le parole inglesi che usiamo».
Ci sono parole che usi spesso per lavoro e che alla fine caratterizzano anche la tua lingua offline?
«Mi capita spesso di usare followo e unfollowo».
In generale, come descriveresti la lingua che usate sui social?
«Se dovessi riassumere, il linguaggio degli influencer di Instagram è immediato, diretto e accessibile. Instagram per definizione è un social molto veloce e penalizza chi ha una comunicazione troppo esaustiva. È fondamentale dire le cose senza farci troppi giri intorno e utilizzare un lessico semplice, se no l’utente skippa. Diverso è il caso di Facebook e Twitter dove la comunicazione è più elaborata».
Nella lingua degli influencer c’è una tendenza all’iperbole, all’esagerazione linguistica di alcuni tratti della realtà?
«Instagram ha la regola dell’ostentazione: è abbastanza sicuro che un influencer non posterà mai una cosa brutta. È anche quando non è bella, stravolgiamo un po’ la realtà per renderla più pazzesca: un cielo piovoso diventa così soleggiato, un hotel mediocre sembra un 5stelle, un ristorante normale può apparire fantastico. Un fondo di verità, però, c’è sempre».
Ma cosa significa per un influencer l’aggettivo bello?
«Bello è un contenuto di qualità che suscita emozione».
Quindi su Instagram c’è spazio solo per la bellezza intesa in questo senso?
«No, negli ultimi tempi molti influencer si occupano anche di temi che hanno a che vedere con l’inclusione. Io personalmente tendo a non espormi su temi spinosi anche se il marketing spesso ti porterebbe a parlare di temi sociali. C’è anche il rischio di non piacere più perché parli di temi più complessi su cui non tutti concordano».
Come definiresti uno stile comunicativo particolarmente efficace per chi fa l’influencer?
«Coerente rispetto alle persone che ti seguono. Chiara Ferragni è molto semplice e diretta, ad esempio, e mi piace molto. Ma ci sono anche degli urologi, una professione apparentemente distante dal mondo dei social e dei giovani, che comunicano molto bene».