Mattarella contro l’abuso pubblico di acronimi

Gli acronimi ci aiutano a risparmiare tempo ed energie, ma in alcuni contesti rischiano di essere troppo “opachi”

Gli acronimi, che a volte chiamiamo sigle, sono presentissimi nella lingua scritta e – in misura minore – orale. In Italia ricordiamo tutti il tempo dei TVB: certo, quando spopolavano queste siglette, gli SMS (acronimo) si pagavano e avevano un numero limitato di caratteri; finiti quelli, pagavi il secondo e quindi ci ingegnammo per risparmiare lettere.

Oggi che i caratteri non si vendono più al chilo nella comunicazione digitata, tuttavia sopravvivono una serie di acronimi, spesso non decifrabili per chi non è addentro al codice dei GenZ. Alle questioni economiche sono subentrate mode linguistiche che si innestano sulla generale tendenza di tutti noi a risparmiare energie quando parliamo e scriviamo. E diciamolo: nella comunicazione fra amici, va benissimo così. In questo contesto lo scritto non deve rispondere necessariamente a requisiti tipici di altri ambiti, come quello scolastico o quello pubblico.

Eppure, anche quest’ultimo purtroppo fa un ampio uso di acronimi. Se n’è rammaricato in qualche modo perfino il Sergio Mattarella nel corso dell’inaugurazione dell’anno accademico a Siena. Di più, ha auspicato l’avvio di «studi per approfondire le conseguenze dell’uso smisurato degli acronimi sul linguaggio e sulla facilità di comunicazione».

Il Presidente della Repubblica faceva riferimento soprattutto alla produzione linguistica delle amministrazioni e istituzioni pubbliche.

Una veloce carrellata per capire immediatamente la faccenda: Mise, Mef, Miur, Mibact, SPID, IRPEF, TARI, TASI. L’elenco, fra ministeri e tasse, potrebbe continuare a lungo. La moda degli acronimi spopola negli uffici pubblici, quasi che abbreviare un’espressione la renda necessariamente più bella o – che poi sarebbe il discorso più sensato – efficace sotto un profilo comunicativo. Ma evidentemente così non è: in molti casi gli acronimi non veicolano il loro significato in quanto abbreviazioni di una formula più estesa; per fare un esempio pratico, SPID non viene decodificato dai cittadini ogni volta che lo sentono come «Sistema Pubblico di Identità Digitale», ma semmai come una parola nuova – anomala per le regole morfologiche dell’italiano, a cui molto ci si appella per castrare le proposte per un linguaggio più inclusivo – con un significato, abbozzato, tutto suo.

Insomma, queste sigle rischiano di generare un po’ di confusione, soprattutto nelle fasce di cittadini con qualche anno in più. Lo stesso rischio che si pone con l’abuso di anglismi nei discorsi pubblici, per i quali in generale si dovrebbero profondere tutte le energie necessarie per renderli accessibili al maggior numero possibile di persone.

(Foto: pixabay.it).