Le parole da riscoprire per una comunicazione più consapevole e inclusiva

Ne abbiamo parlato con Vera Gheno e Federico Faloppa, autori di un utile e agile abbecedario di comunicazione consapevole

La rivoluzione digitale ha trasformato completamente il modo in cui comunichiamo. «Tutto è rapido, istantaneo, quasi frenetico. A cominciare dall’uso dei mezzi: quello tecnologico, innanzitutto, che sfruttiamo compulsivamente, ma della cui portata, potenzialità, rischi non sempre siamo consapevoli», si legge nell’introduzione del recente Trovare le parole, abbecedario per una comunicazione consapevole (edizioni Gruppo Abele), i cui autori, Vera Gheno e Federico Faloppa, sono fra i linguisti più attenti alle conseguenze sociali e relazionali delle nostre parole.

Proprio così: come spesso ripetiamo, non abbiamo bisogno di conoscere a menadito le regole morfosintattiche dell’italiano, ma di sviluppare maggiore consapevolezza di ciò che diciamo e scriviamo, pensando semmai agli effetti dei nostri atti linguistici.

Gheno e Faloppa, ma perché è così importante la consapevolezza nella comunicazione?

G: «perché la qualità del panorama mediale nel quale viviamo dipende dai comportamenti di ogni singola persona. Una volta, quando solo una minoranza aveva una voce pubblica, la competenza specifica della lingua forse era meno richiesta a chi non lavorava con le parole per mestiere. Ma oggi, dato che tutti abbiamo acquisito un megafono, dobbiamo anche acquisire la consapevolezza nell’usarlo, per noi e per gli altri».

F: «perché consapevolezza significa contezza delle proprie possibilità e dei propri limiti: sapere che, con un minimo di sforzo, si può articolare meglio il proprio pensiero, e capire e interpretare meglio quello delle altre persone; sapere che non solo ciò che vogliamo dire conta, ma anche a chi lo vogliamo dire – tenendo quindi conto delle possibilità e dei limiti altrui – e in quale contesto ci muoviamo; sapere infine che essere consapevoli ci aiuta – forse – ad essere più responsabili, meno manipolabili, meno egocentric* ed egoriferit*».

Fra le parole che avete selezionato, a quali “tenete” di più?

G: «io alla I di ingiustizia discorsiva e inclusione, perché sono “figlie” di incontri con studiosi che sono felice di avere conosciuto, Claudia Bianchi e Fabrizio Acanfora, e che mi hanno permesso di andare nel dettaglio di alcune istanze che non avevo mai avuto modo di approfondire. Penso che avere una “rete di conoscenze”, in questo momento, sia più importante che mai, dato che la complessità del mondo in cui viviamo porta con sé la necessità di un grande ibridismo di saperi. E non potendo sapere tutto, è utile circondarsi di persone che riescono a “vedere” cose diverse di ciò che si sta studiando».

F: «pur essendo – per necessità di sintesi – molto sintetiche, sento un legame speciale con la A di ascolto e con la V di vittima, probabilmente per lo stesso motivo: chiedono di uscire da sé, di aprirsi all’altro, di interrogarsi su modalità, sensibilità, bisogni e di mettersi in ascolto non per concedere – da una posizione privilegiata – uno spazio a qualcosa o a qualcuno, ma per sentirsi incompleti e scomodi in quello spazio, e per negoziare relazioni, rappresentazioni, rapporti di potere partendo dai nostri limiti, prima che da quelli dell’altro».

Secondo voi su quale delle parole del vostro abbecedario c’è in genere meno consapevolezza?

G: «secondo me, una delle espressioni meno conosciute è “politicamente corretto”: espressione spessissimo usata a vanvera, che davvero necessita di un approfondimento prima di farvi ricorso. Troppo spesso viene sventolata come uno slogan, senza una reale conoscenza del significato dell’espressione».

F: «sono d’accordo con Vera. Non solo intorno a “politicamente corretto” vi è poca consapevolezza, ma vi è anche un chiaro tentativo di rovesciare addirittura la realtà: “la dittatura del politicamente corretto” è spesso sbandierata come il nemico numero uno delle democrazie occidentali, quando invece è la diseguaglianza in termini di diritti civili e sociali a minare le nostre costituzioni. Aggiungo che mi piacerebbe vedere un uso migliore, e consapevole, di “narrazione”: anch’essa diventata una voce slogan, andrebbe invece riempita di contenuti, sperimentazioni, pratiche, per produrre racconti del mondo più complessi, meno scontati, più sfidanti e meno accomodanti».