A una figura istituzionale come il premier si addicono di più continui proclami oppure un silenzio pieno di fatti?
Non chiedetemi il perché ma Otto e Mezzo della Gruber mi offre spesso spunti di riflessione sulla comunicazione e sul linguaggio. Ieri, ospiti del salottino serale de La7 c’erano Rocco Casalino, portavoce dell’ex premier Giuseppe Conte, e i giornalisti Andrea Scanzi e Beppe Severgnini.
Si parla del libro di Casalino appena pubblicato da Piemme, Il Portavoce, ma soprattutto di Conte e dei suoi futuri programmi. La Gruber a un certo punto sollecita Casalino su una questione assai interessante e che in diversa misura è stata affrontata in queste settimane: la comunicazione di Mario Draghi (e il suo confronto con quella dei politici a cui siamo abituati, Conte compreso).
Casalino sostiene che Draghi stia parlando troppo poco, lasciando spazio eccessivo ai ministri ciarlieri e a leader come Matteo Salvini: «con una forte litigiosità, il suo silenzio potrebbe essere un problema. […] Il suo silenzio secondo me rischia di dare spazio ai leader politici dei vari partiti che sentono il bisogno di esporsi». Il portavoce di Conte suggerisce quindi al neopremier di esporsi di più, di abbandonare il suo modo discreto di leader defilato dai social e dai frequenti proclami.
Gli fa eco in qualche modo Scanzi: «Draghi può permettersi di stare zitto finché la luna di miele dura. […] Purtroppo per lui dovrà essere molto meno sobrio e molto più presente perché nel 2021 non ci si può permettere, con la comunicazione attuale, di essere eccessivamente sobri. Sarebbe bello, ma non lo si può più fare» afferma convinto il giornalista del Fatto Quotidiano.
Ecco, viene da domandarsi quanto sia ineludibile per Draghi una maggiore esposizione mediatica, cedendo a uno status quo che nelle parole di Scanzi e Casalino parrebbe immutabile. Che si debba sempre e comunque dire qualcosa forse potrà apparire normale agli occhi di chi è abituato ai titoli gridati, al sensazionalismo, alla comunicazione «che arriva», come ripete più volte Casalino in riferimento al lavoro svolto con Conte, di cui è riuscito, a suo dire, a tirar fuori «la persona».
Ma riflettiamoci un secondo: di un premier deve uscire la persona, il lato in qualche modo intimo? La persona c’è, senza dubbio, ma quando parla nella sua veste istituzionale non dovrebbe forse restare un passo indietro? Certo, è una faticaccia, ma dopotutto stai ricoprendo una delle massime cariche dello Stato: sei a tutti gli effetti un simbolo da cui ci si aspetta una guida, una visione, non tanto un buffetto o una carezza paterna. In questo dirottamento dell’approvazione dei cittadini dalla figura istituzionale alla persona si misura anche il successo social dell’ex premier, il cui post, consegnate le chiavi di Palazzo Chigi e quindi sbarazzatosi del ruolo ufficiale, riceve comunque oltre un milione e mezzo di mi piace.
Ma torniamo al nostro tema principale: perché Draghi dovrebbe infilarsi nel solco segnato da chi lo ha preceduto nel ruolo di premier italiano? Un drago non può trovarsi bene nello stesso habitat di un conte, dopotutto. E non c’è motivo per farlo, per di più. Anzi, la sua posizione gli permette semmai di fare proprio il contrario: di dimostrare che un approccio diverso, al netto dei social network, è possibile. Perché è un modello, il Presidente del Consiglio, e se non vuole essere la copia sbiadita di chi lo ha preceduto, deve avere il coraggio di cambiare passo, di cambiare voce, di cambiare la qualità e la quantità delle sue parole. Di ridisegnare la sagoma del simbolo che incarna.
Se Draghi riuscirà a domare gli appetiti dei partiti e a condurre l’Italia sulla strada di una crescita sostenuta e sostenibile, alla fine gli italiani non pretenderanno da lui molte parole. In passato dopotutto ci è riuscito, e tre delle sue poche parole ancora riecheggiano oggi: whatever it takes.
Draghi ha insomma l’occasione di fissare un nuovo standard, di porsi come modello di comunicazione istituzionale: il premier che parla poco, o meglio parla il necessario, ma riempie le sue giornate di fatti (si auspica positivi per tutti noi) piuttosto che il mezzo politico sempre impegnato in proclami che si addensano intorno a un vuoto pneumatico o, peggio, a misure controproducenti.
Perché alla fine ha ragione la Gruber quando prova a ipotizzare che «forse gli italiani apprezzano un po’ di silenzio».
(Foto: pixabay.com).
Michele Razzetti