Social, c’è una funzione che stimola il conflitto nei commenti?

Nei nostri commenti ci appare automaticamente il nome dell’interlocutore: ecco perché talvolta dovremmo eliminarlo

«Michele, fai i compiti», «Michele, porta giù l’immondizia», «Michele, non farmelo ripetere due volte»: non so voi, ma io ricordo con un certo fastidio le volte in cui – soprattutto da piccolo – sono stato oggetto di un’apostrofe. Quel nome lì negli esempi, Michele, è proprio questo da un punto di vista linguistico: un’apostrofe, cioè un modo per nominare (coincide con la funzione vocativa del latino) l’interlocutore.

Nella lingua parlata, ancor più se analizzata come strumento di interazione sociale, in genere nulla accade per caso. L’apostrofe non fa eccezione, perché in genere noi esplicitiamo il nome di una persona con uno scopo bene preciso; peccato che talvolta l’effetto sia tutt’altro che piacevole. Non sarà un caso se alla voce apostrofare, nel suo valore transitivo, il dizionario online della Treccani recita: «Rivolgere animatamente il discorso, con tono di rimprovero o con sdegno». Quando ci apostrofano, insomma, spesso tira una brutta aria.

Fin qui abbiamo fatto riferimento alla lingua parlata, ma il confine tra questa e quella scritta è sfumato. Lo sapeva bene il linguista Giovanni Nencioni e lo sperimentiamo quotidianamente tutti noi. Ad esempio, sui nostri cellulari scriviamo – o meglio, digitiamo – eppure molte delle caratteristiche dei nostri messaggi sono più vicini al parlato.

Non entriamo ora nel dettaglio, ma tutti noi possiamo facilmente intuire la differenza tra una conversazione (il termine non è casuale perché la struttura è quella di un dialogo) su WhatsApp e una lettera scritta negli anni Novanta.

Da qualche mese l’apostrofe ha trovato nel parlar spedito – ingegnoso titolo di un volume di Elena Pistolesi dedicato all’italiano che usiamo online – un terreno fertile. Già, perché – ci avrete fatto caso – Facebook e Instagram nei nostri commenti ai contenuti a cui ci interessiamo, inseriscono automaticamente il nome della persona a cui rispondiamo.

Un’innovazione tecnologica sicuramente nata con le migliori intenzioni: le conversazioni includono il più delle volte molti interlocutori e senza apostrofe si potrebbe creare confusione. Io rispondo a Tizio con parole che magari si incastrano (nelle dinamiche conversazionali) anche con l’intervento di Caio, che a sua volta mi risponde, pur non essendo la persona a cui intendevo rivolgermi. Insomma, un casino pazzesco che lievita nel caso in cui i partecipanti alla conversazione siano centinaia.

Facebook ha capito che questa confusione non giovava al traffico e ha inserito l’apostrofe automatica. E qui arriviamo alla nostra ipotesi. Questa che è stata una mossa fatta in buona fede, potrebbe non aiutare il cosiddetto hate speech o per lo meno la nascita di confronti pacifici. Perché? Per il motivo che menzionavamo all’inizio dell’articolo: anche se non lo realizziamo coscientemente, l’apostrofe attiva in noi il ruolo del bambino ripreso connotando l’interlocutore come una figura autoritaria e quindi potenzialmente odiosa.

Un fenomeno che si apprezza soprattutto quando le opinioni sono divergenti e che veste l’interlocutore che sta provando a spiegarci qualcosa – magari nella calma più assoluta e con le migliori intenzioni – come un maestrino/a, un saccente, uno che sa tutto lui.

Insomma, non è impossibile che l’apostrofe contribuisca al dilagare degli scontri verbali sui social. Provate voi stessi a leggere uno scambio un po’ acceso e forse vi ritroverete ad assegnare un tono odiosetto proprio all’apostrofe e forse a proiettarlo su ciò che segue.

Cosa fare dunque? A costo di rischiare un po’ di confusione (che il contesto potrebbe risolvere), forse nei dibattiti con i toni più esacerbati, potremmo sforzarci di eliminare quell’apostrofe che Facebook e Instagram ci propongono automaticamente e diminuire così il rischio che il nostro messaggio venga letto con un tono che non era nelle nostre intenzioni.

(Foto: unsplash.com).