La scelta delle parole per descrivere situazioni complesse come quella che viviamo dovrebbe essere più accurata, ecco perché
Notizia bomba, super scoop: in Italia il coronavirus sta creando dei problemi. No, così, nel caso in cui qualcuno non avesse sentito. In realtà, questa ipotesi è ampiamente irreale perché siamo frastornati dalle informazioni su questo virus che non vuole saperne di abbandonare il Bel Paese.
Ed è giusto, sacrosanto che i mezzi di informazione – aiutati da tutti noi sui rispettivi social – dedichino moltissima attenzione a questo fenomeno inedito. Ma viene da domandarsi – anche in questa occasione – se la forma scelta sia quella più efficace. Mi riferisco soprattutto alle scelte lessicali e in particolar modo a quelle di molti telegiornali.
Sì, bisogna tratteggiare la situazione con precisione. E sì, alcuni cittadini non recepiscono bene il messaggio se i toni sono troppo edulcorati. Però, santo cielo, non stupiamoci se poi la gente va nel panico più del dovuto.
Ogni volta che dobbiamo descrivere un pezzo di realtà abbiamo a disposizione in genere più di una parola. È una delle grandi ricchezze dell’italiano (e in misura maggiore o minore di quasi tutte le lingue).
E allora mi domando: per descrivere l’atto di comprare molti prodotti in un supermercato è indispensabile ricorrere al verbo razziare? Io mi immagino subito la vecchietta ottantenne vestita da Attila flagello di Dio che distrugge il reparto ortofrutta dell’Esselunga. Ma al di là della scenetta spiritosa questa scelta lessicale evoca immagini negative nella mente dell’ascoltatore. È davvero necessario far pensare che domani troveremo il supermercato vuoto, se non mezzo distrutto? Puoi capire poi perché i politici – stranamente più accorti in questo dei giornalisti – si affrettano a specificare che non serve prendere d’assalto i supermercati.
Il quadro lessicale catastrofista non migliora quando sentiamo parlare del coronavirus stesso e dei suoi effetti. Lasciamo stare epidemia e pandemia che sono termini tecnici il cui utilizzo è in qualche modo avvallato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Ma tutti gli aggettivi che li accompagnano sono davvero fondamentali per trasmettere il messaggio? Alternativamente, l’epidemia viene definita tremenda, tragica, drammatica, devastante, fuori controllo: tutte connotazioni che suscitano paura. E giustamente un vecchietto intervistato in uno dei mille servizi afferma che ciò che spaventa di più è il panico, non l’epidemia in sé.
Perché quindi non scegliere aggettivi diversi? Aprite il vocabolario, magari anche – esageriamo – quello dei sinonimi e provate a selezionare un aggettivo che non porti la mente di chi ascolta verso orizzonti tempestosi. E se proprio non vi vengono aggettivi che non seminino panico, evitate di qualificarla questa benedetta pandemia. Perché frasi del tipo «questa drammatica pandemia sta mettendo in ginocchio l’Italia» non fanno bene a nessuno. Noi giornalisti dovremmo sapere bene che i fatti dovrebbero parlare da soli, senza bisogno di ricamarci lessicalmente su e senza indurre – anche soltanto indirettamente – inutili ansie a chi ci legge, ascolta e guarda.