Lingue Madri: i bilinguismi diversi della Sardegna e dell’Alto Adige

La legge riconosce alcune minoranze linguistiche ma non in tutte le zone una vera parificazione con l’italiano è realmente possibile

Nella Giornata internazionale della Lingua Madre, abbiamo deciso di dedicare una piccola serie ad alcune curiosità che riguardano le lingue che si parlano in Italia. Già, nel territorio del nostro Paese, non si parla solo italiano, ma anche quelli che per comodità definiamo dialetti e lingue che istintivamente non assoceremmo all’Italia. Fra queste ci sono il ladino, che no, non è il risultato di un refuso sulla parola latino, il walser, che nulla c’entra con il walzer, l’albanese e il greco. E poi ancora, fra le comunità linguistiche riconosciute dalla legge 482 del 1999, troviamo il franco provenzale, il catalano, il friulano, il sardo e il tedesco.

Proprio quest’ultimo è interessante perché rappresenta un caso di parificazione piena con l’italiano. In Alto Adige, infatti, dopo decenni di rivendicazioni si è giunti a una situazione in cui il tedesco è interscambiabile con l’italiano praticamente in tutti i settori della quotidianità. «In questa comunità il bilinguismo è formalizzato: tedesco e italiano sono sullo stesso piano anche da un punto di vista istituzionale. Altri esempi di questo assetto sono rappresentati dallo sloveno a Trieste e dal francese in Valle d’Aosta» ci spiega Fiorenzo Toso, professore ordinario di linguistica generale all’Università di Sassari e uno dei massimi esperti di minoranze linguistiche in Italia.

Anche la Valle d’Aosta sotto questo aspetto è un caso piuttosto singolare. «Qui abbiamo il francese come lingua formalmente ufficiale accanto all’italiano, ma la popolazione parla il franco provenzale (chiamato dai valdostani patois), una varietà linguistica alloglotta che non ha una tradizione scritta; infine c’è anche una manciata di comuni dove si parla il tedesco walser, varietà germanica importata in Italia nel dodicesimo secolo». Quindi nonostante il francese abbia un riconoscimento statutario, che deriva dal fatto che in quella regione è sempre stata la lingua di cultura, di fatto «il francese è parlato correntemente da poche persone».

Che nel nostro Paese sia talvolta difficile raggiungere forme di bilinguismo istituzionalizzato è ben esemplificato dalla Sardegna. «Ipotizziamo che dal giorno alla notte si decidesse di parificare il sardo all’italiano. È un’operazione legittima e auspicabile. Una difficoltà è data però dal fatto che il sardo è parlato in un territorio in cui vive un milione e mezzo di persone e dove non c’è una varietà unica standardizzata; le differenze e le suscettibilità interne sono forti: i campidanesi non amerebbero certo sentirsi imporre il logudorese e viceversa. Ci sono quindi difficoltà di natura pratica».

Ciò non toglie comunque che diverse minoranze linguistiche, pur non essendo parificate in toto all’italiano nella pratica, godano comunque di tutele in base alla legislazione. «Sono una dozzina in tutto e includono i piccoli gruppi walser o cimbri, piccole comunità germaniche distribuite nelle Alpi, piccole comunità greche, una comunità catalana ad Alghero, tre comuni di lingua slava in Molise per citarne solo alcune».

Purtroppo alcune di queste comunità linguistiche, nonostante ufficialmente siano riconosciute, progressivamente si stanno sfilacciando. «Alcune di queste varietà sono praticate purtroppo da pochi anziani e si apprestano a un’estinzione totale. Oggi ufficialmente figurano una decina di comuni in cui si parla il walser, ma in realtà questa lingua sopravvive solo in 3 o 4 di queste comunità. Anche il greco è ormai parlato pochissimo nell’Aspromonte calabrese, mentre è più vivo in un gruppetto di comunità salentine».

Perché dovremmo preoccuparci se una lingua va incontro all’estinzione? Al di là delle ovvie motivazioni culturali, non dimentichiamo che in qualche modo quel sistema linguistico preserva un valore, da intendersi anche nell’accezione più spietatamente economica. Come ci spiega Michele Gazzola, docente all’Università dell’Ulster ed esperto di economia delle lingue, «una lingua può avere un valore economico per gli individui anche se ha scarsa utilità pratica nel mercato del lavoro o nel commercio. Per un economista ha valore economico tutto quello per cui una persona è disposta a pagare. Se sono disposto a pagare di più per un appartamento sito all’ultimo piano di una palazzina perché da lì si ha una bella vista sul mare (mentre dall’appartamento del primo piano con la stessa metratura quadrata il mare non si vede), allora vuol dire che la vista sul mare per me ha un valore economico, e questo valore equivale esattamente alla differenza di prezzo fra i due appartamenti. Sostenere una lingua minoritaria per motivi identitari anche se non è usata sul lavoro ha quindi un valore economico per gli individui se essi sono disposti a contribuire alle spese per la promozione e valorizzazione della lingua in questione».

Per approfondire questi argomenti consigliamo il volume di Fiorenzo Toso: Le Minoranze Linguistiche in Italia (il Mulino).

(Foto: le Dolomiti; pixabay.com).